mercoledì 18 marzo 2009

ETICA E IMPRESA (di Raffaele Bruno)

ETICA E IMPRESA
di Raffaele Bruno

La pubblicistica politica, specie di sinistra, imposta il
problema dei nuovi rapporti all'interno delle imprese in
forma riduttiva, su un piano basato esclusivamente sulla
contrapposizione delle forze. Invece di usare il termine
impresa, che ha un significato comprensivo della funzione
politica e sociale, oltre che economica, della comunità di
lavoro (intesa come coordinamento dei fattori secondo una
consapevole finalizzazione dell'attività produttiva), usa
il termine azienda che fa riferimento al più ristretto
concetto di organizzazione dei mezzi di produzione.
Analogamente, invece di usare il termine partecipazione, che
è l'estensione operativa del rapporto collaborativo fra i
fattori della produzione, usa il termine potere, che ha
contenuto assoluto e conflittuale.
Per questo, al binomio "azienda e potere" dal punto di
vista di una moderna sociologia, deve essere contrapposto il
binomio "impresa e partecipazione". E' chiaro che non si
intende con ciò sottovalutare i contrasti di interesse che
esistono nella realtà delle cose e che rappresentano
l'aspetto evolutivo anche nella vita delle imprese, come lo
sono nella vita di tutte le comunità umane. Tuttavia la
tematica dei nuovi rapporti non può intitolarsi alla fase
critica ed accidentale, qual è il momento della
contraddizione, bensì allo sbocco risolutivo nel quale il
rapporto all'interno dell'impresa trova stabile e
costruttiva sistemazione e, con questa impostazione, si
dilata a tutta la comunità nazionale.
La pubblicità giornalistica e scientifica italiana ha
cominciato ad interessarsi solo da qualche tempo della
partecipazione dei lavoratori alla gestione e ai risultati
economici delle imprese.
Ci riferiamo naturalmente alla pubblicistica cosiddetta
ufficiale cioè ai giornali e alle riviste conformiste.
Infatti vi è sempre stato in Italia chi si è
interessato, spesso con serietà, del problema che
genericamente va sotto la voce partecipazione, ma si è
trattato di studiosi volutamente ignorati e comunque
ostacolati.
Eppure negli anni trascorsi sono state presentate in
Parlamento molte proposte di legge e vi è stata una
pubblicistica politica che se ne è occupata con impegno e
validi risultati scientifici; tuttavia la faziosità delle
oligarchie dominanti e la pavidità della cultura ufficiale
non ne hanno voluto tenere conto.
Oggi che l'argomento è proposto e dibattuto a seguito
della crisi economica e sociale, nella disordinata ricerca
di una via diversa da quelle che hanno fallito, non si può
non rilevare l'arretratezza concettuale del pensiero
ufficiale italiano specialmente nelle espressioni più
conformiste e di ossequio al potere costituito. Tale
autentica ignoranza - salvo pochi casi - si estende
purtroppo anche alla ricerca universitaria condizionata
dalle proposizioni liberiste oda quelle marxiste.
Riuscirà il mondo della politica e della cultura a
riguadagnare il tempo perduto? Lo speriamo. Dobbiamo però
intanto rilevare che l'interesse presente appare piuttosto
il riflesso degli studi e delle attività legislative
straniere che il frutto di originali impostazioni
rispondenti alle autentiche esigenze della moderna società
italiana. A tal riguardo risulta particolarmente colpevole
il fatto che si trascurano i precedenti storici italiani
obiettivamente ben più ricchi di possibilità risolutive
di quanto non lo siano le pur interessanti evoluzioni di
altri Paesi.
Sul piano sociale ed economico, comunque, non c'è
dubbio che il silenzio finora mantenuto e l'atteggiamento
passivo ora assunto, sono la conseguenza del "no" ottuso e
antistorico opposto alla partecipazioni padronali e da
quelle dei sindacati populo-marxisti.
Le urne - quelle padronali - continuano ad essere chiuse
nella concezione del potere decisionale esclusivamente
subordinato ai portatori o ai rappresentanti del capitale,
mentre l'efficienza e la tempestività gestionale sono
sempre più legate alla collaborazione di tutte le
componenti dell'attività imprenditoriale e al loro
decentramento funzionale, pur nella guida unitaria.
Le organizzazioni sindacali di regime, invece, sono
timorose di veder "camminare da soli" i lavoratori - a
seguito della promozione morale ed economica derivante
dalla cogestione - e di perdere l'ipoteca, posta da essi
sindacati, sulla società e sull'economia nazionale per
conto della sinistra.
Tuttavia questo ritardo storico non può essere imputato
soltanto alle oligarchie dominanti le forze sociali ed
economiche. Di esso è consapevole anche la miopia
intellettuale e la faziosità provinciale di una classe
politica sostanzialmente contraria ad ogni modernizzazione.
Questa classe politica di centro destra e di centro
sinistra ritiene di poter governare a turno l'Italia facendo
da mediazione tra forze conservatrici e forze sovversive
instaurando sistemi assistenziali e clientelari
(particolarmente nel Mezzogiorno d'Italia) al posto di
strutture produttivistiche e funzionali. Deve quindi essere
smascherata la pretesa azione progressista fondata sui
presupposti dell'egoismo individualista e sulla
inconciliabilità "insuperabile" della lotta di classe. Si
trascura cioè che in ogni società progredita il momento
costruttivo è quello collaborativo e partecipativo, mentre
quello conflittuale e distruttivo non può essere che
eccezionale e transitorio.
Del pari l'attuale classe politica è vittima della sua
stessa ideologia che si basa su due false convinzioni: che
il plularismo politico sia costituito esclusivamente
dall'insieme dei partiti (intesi formalmente come diversi
indirizzi dottrinari che si confrontano per trovare la
migliore soluzione di governo, ma sostanzialmente
risolventisi in sistemi di gruppi chiusi che si scontrano
con il potere) e che la dinamica sociale si possa ridurre al
solo rapporto di classe fatalmente destinato a concludersi
con la supremazia di una classe sull'altra, mentre invece il
divenire sociale è legato ad un complesso organico e
molteplice di gruppi umani che si evolvono del tutto al di
fuori del falso dualismo dialettico.
La realtà sociale è costituita, oltre che dai
partiti, anche (e soprattutto!) dalle imprese, dalle
famiglie, dagli enti pubblici e privati, dalle associazioni
morali, culturali, economiche che ora non hanno alcuna
collocazione organica e funzionale nè pertanto alle
decisioni e alle responsabilità pubbliche.
Di qui deriva la necessità che l'evoluzione della
società - nei rapporti fra gli uomini e fra i gruppi e
nella realizzazione di nuovi istituti - deve essere il
frutto di più organiche e più complete rappresentanze.

IL CAPITALE
NON BASTA PIU'
Nelle diverse concezioni sociologiche derivate dal
marxismo e dal liberalcapitalismo un punto rimane sempre
fermo: quello legato alla teoria della sovrastruttura.
Secondo l'impostazione marxista e liberalcapitalista tutte
le regolamentazioni dei rapporti tra uomini derivano dalla
struttura dei rapporti economici. Ogni istituto civile è
concepito come sovrastruttura della sottostante struttura
dei rapporti economici, considerati appunto come gli unici
sostanzialmente determinanti nella vita degli aggregati
sociale e altrettanto.
1) Nella concezione corporativa, invece, - in armonia con
la concezione dell'uomo integrale e naturalmente sociale -
il concetto di rottura dei rapporti fra gli uomini è
fondato sull'intero complesso degli elementi che
costituiscono le ragioni dell'esistenza degli aggregati
sociali, nonché sulla varietà dei movimenti che ne
determinano le evoluzioni;
2) Le necessità della moderna vita associata implicano
una maggiore integrazione fra loro dei fattori della
produzione e, contemporaneamente, l'esplicazione di una
sempre maggiore specializzazione nello svolgimento dei
processi produttivi;
3) La massima parte di coloro che attualmente
monopolizzano il potere direzionale delle organizzazioni
sindacali contrapposte, dei datori di lavoro e dei
lavoratori, affrontano l'interpretazione della nuova
realtà sociale e la nuova problematica che ne deriva, con
vecchi strumenti concettuali i quali sono del tutto superati
e quindi non in grado di imboccare strade risolutive.
L'unico discorso al quale sono sensibili gli imprenditori
è quello della pace sociale, ossia della tregua nei
conflitti aziendali, oltre che di categoria, al fine di
consentire la continuazione di un tipo di gestione
dualistica basato ancora sul mantenimento della separazione
rigida tra gruppo dirigente e dipendenti e ciò in
contrasto con la esigenza di andare, sul piano economico e
funzionale, verso una gestione di tipo associativo e
partecipativo;
4) Le forme del diritto all'informazione, di
determinazione e di cogestione sono stadi di avvicinamento
alla partecipazione sostanziale, ossia al definitivo
passaggio dal rapporto di lavoro dipendente al rapporto
associativo. Ciò comporta l'uscita dalla subordinazione o
sovraordinazione economica e l'attuazione di strutture
organizzative funzionali nella quali la gerarchia aziendale
coincide con la gerarchia imprenditoriale e si attua
insieme, la partecipazione organica alla proprietà, alla
gestione e ai risultati economici.
L'autogestione è un termine equivoco perché spesso
legato alla concezione della semplice gestione dei mezzi di
produzione senza una proporzionale partecipazione alla loro
proprietà. Bisogna passare dal concetto di "forza - lavoro
impiegata" a quello di "professionalità nel lavoro" il che
comporta l'assunzione per ciascun lavoratore di una
collocazione che ne qualifica ed espande la

LA
RIVOLUZIONE DIMENTICATA
E' bene che, per una corretta controinformazione
storiografica, sia sottolineata che il fascismo ha tentato
di correggere devianti impostazioni classiste, comuni sia al
capitalismo liberale che alla sinistra politica.
Basti citare la realizzazione del codice civile che,
frutto di un pluriennale lavoro, sostituì nel 1942 gli
antichi codici civili e del commercio. Quei codici
rappresentavano l'espressione ed il frutto delle concezioni
borghesi e liberali sviluppatesi con la Rivoluzione Francese
che aveva creato distinte classi sociali in perenne
contrasto fra loro. Il codice civile italiano era il codice
delle classi fondiarie, dei latifondisti "illuminati" che
avevano superato indenni le tempeste libertarie. Tutto era
infatti in funzione della proprietà e della sua difesa. La
libertà contrattuale stessa era concepita come garanzia
della sua conservazione.
Il codice di commercio era, invece, espressione della
"classe emergente" della borghesia industriale e
commerciale. In essa il centro del sistema normativo si
spostava dalla proprietà ai contratti, fondamenti
essenziali di una economia capitalista. La valutazione
essenziale del codice del commercio fondava sulla
valutazione che i contratti non più ancorati alla
proprietà, ma semplici strumenti di speculazione, la loro
funzione era quella di soddisfare, nel rapporto tra
consumatore ed imprenditore o fra imprenditore e
proprietario delle materie prime o dei vari fattori della
produzione, le aspettative di profitto dell'imprenditore.
La unificazione dei due codici rappresentò il tentativo
di superare questo dualismo e questa aberrante logica
classista, attraverso il riesame ed una nuova
regolamentazione della figura centrale dei rapporti
produttivi e di scambio dei beni e dei servizi.
Nell'impresa corporativa "l'imprenditore e i suoi
collaboratori, dirigenti, impiegati, operai, non erano
semplicemente una pluralità di persone legate fra loro da
una somma di rapporti individuali di lavoro, con fini
individuali, ma formavano un nucleo sociale organizzato, in
funzione di un fine economico comune, in cui si fondono i
fini individuali dell'imprenditore e dei singoli
collaboratori: il raggiungimento del migliore risultato
economico della produzione". L'imprenditore, quindi, non
agisce per realizzare il proprio interesse, ma per
realizzare l'interesse dell'impresa, ossia l'interesse della
comunità di cui fanno parte, in egual misura, e i
lavoratori e l'imprenditore e, più in generale,
l'interesse stesso della Nazione.
L'impresa diventa così una "comunità di lavoro" con
due tipi di lavoratori: l'imprenditore che presta il "lavoro
organizzativo" e che percepisce i profitti come compenso del
suo lavoro, e i lavoratori dipendenti che svolgono "lavoro
esecutivo".
L'imprenditore non è altro, infatti, che un
lavoratore; tanto che, se la scienza economica liberale
aveva considerato il profitto come remunerazione del rischio
di perdere quanto investito, ed il pensiero marxiano ne
aveva negato ogni giustificazione considerando ottusamente
il valore dei prodotti come creato esclusivamente dal lavoro
e giudicando quindi il profitto dell'imprenditore come una
"espropriazione dei lavoratori", gli ideologhi del
corporativismo - pur accettando l'iniziativa privata come lo
strumento più valido nell'interesse della Nazione se resa
scevra dall'individualismo e dalla spinta speculativa
capitalistica - qualificarono il profitto come remunerazione
del lavoro di iniziativa e di organizzazione
dell'imprenditore.
Veniva così eliminata di fatto quella situazione di
permanente conflittualità creata dalle concezioni
liberalcapitaliste e coltivata da Karl Marx per "inventare"
un motore per la storia a suo uso e consumo: la lotta di
classe.
Al di là dell'esame su quanto effettivamente potette
realizzarsi durante il fascismo, è innegabile che il
corporativismo supera le concezioni sia marxiste che
liberali dei rapporti economico - sociali, tentando una
normalizzazione delle strutture produttive incentrate nella
figura dell'impresa, quale proiezione, nel mondo del lavoro,
dell'idea dello Stato organico.
Nell'ambito dello studio delle dottrine socio -
economiche e sul ruolo delle imprese, non si può quindi
prescindere da quella corporativa. Anche se spesso ignorata,
essa esiste nella sua concreta realtà legislativa e può
offrire più soluzioni di quante non si voglia credere.
Ovviamente a patto che si superi presto la deviante e
perversa situazione in corso, una situazione che assoggetta
l'azienda al potere partitico o che consente alla grande
industria (vedi la crisi della FIAT) di privatizzare i
profitti e socializzare le perdite.
Siamo convinti, che sia giunta l'ora di affidare la
gestione della FIAT ai tecnici, agli operai, a quanti nella
grande azienda hanno lavorato e lavorano, spesso da decenni,
e che potrebbero assumere la gestione dell'impresa
attraverso un loro Comitato, al quale far partecipare anche
i rappresentanti degli Agnelli e degli attuali azionisti.
Siamo dell'avviso, quindi, che per difendere tutti i posti
di lavoro della Fiat c'è un solo sistema: quello della
"Socializzazione" che avrebbe dalla sua il dettato
costituzionale italiano (art. 46) e le molte esperienze
tutte positive di "partecipazione", per molti Paesi
dell'Unione Europea, a cominciare dalla Francia e dalla
Germania. Anche se in questi Paesi si è limitata la
partecipazione solo agli utili dell'Azienda, mentre noi
siamo convinti che la socializzazione sia valida solo se
arriva ai livelli decisionali della gestione aziendale.
Come pure riteniamo che rimanga intatta e attuale l'idea
di realizzare quella riforma costituzionale che prevede
l'abolimento del Senato in Italia e la sua sostituzione con
una Camera dei rappresentanti delle categorie, delle
professioni, delle arti e delle competenze.

Raffaele Bruno

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