martedì 20 settembre 2016
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GLI SCANDALOSI COSTI DELLA POLITICA ITALIANA
di Raffaele Bruno
Ormai, come ci
documenta il libro di Gerardo Mazziotti: “L’assalto alla diligenza”, edito da
Denaro Libri, i costi della politica in Italia hanno raggiunto la spaventosa
cifra di ben 40 miliardi di euro all’anno. Uno sperpero inaudito di fronte al
quale c’era stata una “levata di scudi” e di indignazione dell’opinione pubblica
che ha prodotto appena il misero risultato di ridurre gli stipendi dei
parlamentari di un ridicolo 10%. Ma successivamente hanno già in parte
provveduto a riprenderseli con aumenti vari che si sono essi stessi votati
all’unanimità.
Nulla si è fatto, invece per la “foresta degli sperperi” incredibili che
esistono a tutti i livelli e di cui abbiamo parlato in precedenti articoli:
Quirinale, Uffici di Presidenza Camera e Senato, Corte Costituzionale, Csm,
Corte dei Conti. Sprechi e privilegi inauditi che in altri Paesi non sono
neanche immaginabili. Nei giorni scorsi abbiamo appreso che le pensioni dei
2.238 ex parlamentari (1377 deputati e 861 senatori) ammontano a qualcosa come
187 milioni di euro, pari a circa 360 miliardi di lire l’anno, cioè un miliardo
di lire ogni giorno che Dio manda in terra. E nel leggere l’elenco dei
pensionati c’è da restare sbalorditi e indignati. Percepiscono le loro pensioni
dorate addirittura due ministri e diciotto sottosegretari del governo Prodi in
aggiunta agli stipendi spettanti ai membri dell’Esecutivo. Tanto, a pagare sono
i cittadini italiani con le tasse sempre più esose, mentre a morire di fame non
sono più soltanto disoccupati e pensionati sociali, ma anche famiglie
monoreddito e precari di ogni genere. Ci piace perciò citare il caso del
ministro degli Interni Giuliano Amato che cumula lo stipendio di ministro a una
pensione di oltre 36 milioni di lire al mese. Cumulo vietato ai comuni
cittadini, ma non agli ex parlamentari chiamati (e pagati profumatamente) per
fare i sindaci, i presidenti di enti pubblici e gli amministratori di società
miste. Pochi esempi tra i tantissimi riportati da giornali nazionali: Claudio
Petruccioli percepisce una pensione mensile di 9.387 euro e lo stipendio di
presidente della Rai (250.000 euro l’anno); Walter Veltroni e Rosa Iervolino
Russo cumulano la pensione di 9.947 euro e lo stipendio di sindaco di Roma e di
sindaco di Napoli (ben 243.000 euro l’anno); Francesco Nerli aggiunge allo
stipendio annuo di 307.000 euro come presidente dell’Autorità portuale di Napoli
la pensione mensile di ex senatore di 4.725 euro; Vittorio Sgarbi (non fa più il
deputato ma “l’ospite pagato ed esagitato” in tantissime trasmissioni
televisive) percepisce lo stipendio di assessore alla Cultura nella giunta
Moratti a Milano e la pensione di 8.455 euro; Nicola Mancino assomma alla
pensione mensile di 9.947 euro lo stipendio di vice presidente del Csm; Vincenzo
Siniscalchi percepisce ogni mese lo stipendio di membro del Csm e la pensione di
ex parlamentare di ben 6.590 euro; Lamberto Dini incassa ogni mese una pensione
di 52 milioni di lire e lo stipendio di deputato di 14.500 euro netti. E si
potrebbe continuare all’infinito, ma preferiamo accennare agli ex parlamentari
che esercitano attività molto redditizie e che, al termine, usufruiranno di
altre pensioni. E ai quali perciò, andrebbe tolta. E’ il caso dei giornalisti
Scalari, Caparra, Orlando, a Mafai, la Rossanda e dei docenti universitari
Galasso, Asor Rosa, Toni Negri (!), Sanguineti, Arbasino e degli avvocati
Pisapia, Saponara, Taormina, Rodotà, Ruffolo e dei politici ancora in attività
di servizio Marzano (presidente del Cnel), Intini, Dalla Chiesa, Pinza, Manconi
(sottosegretari al Governo Prodi) tutta gente che non ha certo bisogno della
pensione di ex parlamentare per vivere. E molto bene. Nessuno osa minimamente
pensare di togliere o anche ridurre la pensione a personalità politiche che non
hanno pensato ad arricchirsi e che sono perciò privi di altri redditi. Ma
togliere ai miliardari Franco Zeffirelli, Susanna Agnelli, Luciano Benetton,
Pasquale Squitieri, Chicco Testa e a quanti si trovano in condizioni analoghe ci
sembra il meno che si possa fare.
Il nostro ruolo di militanti social popolari deve anche essere quello di
denunciare gli sprechi di regime. Magari prendendo di mira anche singoli
personaggi e invitandoli a restituire il maltolto. E’ vergognoso, infatti,
dovere assistere a gente che guadagna tanto grazie a privilegi assurdi, mentre
sempre più famiglie italiane finiscono sotto la soglia di povertà e non riescono
ad arrivare alla fine del mese.
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"L'IDENTITA' SOCIALPOPOLARE: RAGIONI E PROSPETTIVE DI UNA BATTAGLIA TUTTA DA
COMBATTERE"! di Raffaele Bruno
I conflitti politici sono oggi scaduti a rango puramente spettacolari. I
confronti, sia tra uomini che tra le linee direttrici delle idee, della
condizione del vivere sociale e della concezione dell'uomo, del mondo e dello
Stato, non si producono spesso su contenuti reali, ma si limitano alla facciata
e al "trucco estetico".
I rappresentanti del popolo sono solo preoccupati di bene apparire. Parlano
forse molto, ma dicono poco, generalmente niente. Né sono preparati sul
programma da difendere, tanto non serve, poiché forse nessuno gliene chiederà
mai conto. Se si ascolta un esponente di centrodestra o di centrosinistra in
televisione in campagna elettorale, si fa fatica a distinguere le loro
appartenenze partitiche, tanto è l'omologazione e l'appiattimento esistente.
Sicché i portatori del nuovo, a sinistra come a destra, sono quasi sempre degli
ideologi isterici, vuoti, incartapecoriti, lasciati indietro dalla realtà , che
è complessa e con problemi nuovi ed epocali da affrontare.
Noi crediamo che sia giunta l'ora di spezzare questa demenziale spirale e di
rimboccarci le maniche. Lo si può fare in un modo nuovo di intendere la
politica, inserendo "idee-forza" nel fango del pensiero debole e sempre più
globale", ricorrendo al buon senso e alla lucidità, interessandoci oculatamente
e con serietà e impegno dei problemi che ci toccano da vicino.
L'identità socialpopolare è già delineata attraverso i suoi punti cardini della
visione etica dello Stato, con l'intento di realizzare uno Stato nazionale del
Lavoro che si basi sulla partecipazione sociale e corporativa e sulle relative
rappresentanze politiche e la sua amministrazione. Difendendo la dignità del
lavoratore, contro le privatizzazioni selvagge dei servizi essenziali che devono
rimanere sotto il controllo dello Stato, difendendo i valori dello spirito e
della Tradizione dei valori. Poiché le radici profonde non gelano mai. Vogliamo,
inoltre, apportare sostanziali correttivi legislativi in termini sociali
dell'economia capitalistica di mercato, la conseguente retrocessione ulteriore e
l'emarginazione definitiva delle economie deboli che caratterizzano taluni aree
del nostro Paese, in particolare il Mezzogiorno.
Dall'ansia della ricerca di rinsaldare e rendere patrimonio comune la linea
politica socialpopolare per uscire dal capitalismo selvaggio e dalla spirale che
vorrebbe ridurre (come abbiamo spesso detto) il mondo solamente ad un
supermercato in cui l'uomo viva soltanto per produrre e consumare e per
combattere quello che definiamo il sistema sociale a "doppio binario", come
esiste drammaticamente in America. Basta qui ricordare appena le conseguenze
dell'applicazione della cosiddetta deroga "di soglia" all'articolo 18, la
realizzazione di una medicina privata (di tipo assicurativo) da affiancare al
Servizio Sanitario Nazionale), proposta che emerge ricorrentemente,
l'incentivazione del sistema scolastico ed universitario privato a discapito di
quello pubblico. Più in generale, insomma, si ha la sensazione (o la certezza)
che con l'appannarsi della sensibilità riformista nelle classi politiche sono le
ragioni della contabilità a dominare il campo e, nello specifico, a rimodellare
quello Stato sociale che rischia di scomparire del tutto se non lo si difende
con i denti.
Nelle regioni del Sud d'Italia le condizioni di partenza dello stato sociale
(oggi detto welfare) accusano pesantissimi ritardi rispetto al resto del Paese,
stimato nell'ordine del 45 - 50 per cento della spesa sociale, pari a 170 euro
pro - capite, restando inferiore al valore nazionale di quattro punti. Non solo,
ma la quota di spesa sociale risulta in relazione inversa rispetto alla capacità
fiscale dei singoli comuni, così come emerge da una recente indagine del Cer
Centro Europeo di Ricerca). In particolare, il 72 per cento della popolazione
meridionale risiede in comuni a capacità "bassa" o "molto bassa" del livello di
qualità della vita e solo il 4 per cento in quelli a capacità medio alta. Non è
dunque un pessimismo di facciata ritenere che i valori della marginalità sociale
delle aree più deboli, dal punto di vista dell'imposizione fiscale, possono
ulteriormente ampliarsi nel corso di una interpretazione non solidale del
progetto federalista, da molti ancora sottovalutato nelle sue conseguenze sul
piano dello sviluppo e della modernizzazione della nostra società. La radicale
modifica del Titolo V della Costituzione, che ribalta la potestà legislativa
dello Stato a favore delle Regioni, produrrà conseguenze a cascata
sull'organizzazione dei principali servizi sociali (altre che
sull'organizzazione della produzione e del territorio).
Le prospettive per l'affermarsi nella società delle ragioni social popolari
consistono anche nella volontà di riconoscere la potenzialità che il Mezzogiorno
può avere quale "riserva strategica" per l'alternativa all'attuale modello
politico e culturale, che è da definirsi "modello perverso".
Il Mezzogiorno, di cui lo scrivente si occupa particolarmente, seguendo le
vicende da giornalista e combattendo ogni giorno in piazza la battaglia per la
dignità della sua gente da militante socialpopolare, è oggi minacciato da
gravissimi processi di "omologazione" volto a sovvertire i tanti valori che
ancora e nonostante tutto (e tutti) resistono in termini di usi, costumi e
tradizioni per giungere - da parte del mondialismo e del liberal-capitalismo - a
nuovi modelli comportamentali e a scelte di consumo funzionali al ruolo gregario
e subalterno del Mezzogiorno come area di mercato dipendente delle
multinazionali, da quelle del sistema capitalistico ed alto-finanziario.
Partendo dalla nostra concezione organica della vita, dalle vocazioni
territoriali, dalla storia e dalla cultura tradizionale di queste nostre terre,
come dalle condizioni socio-economiche - occorre, invece, rilanciare una
politica chiara e coraggiosa che sia di stimolo per chi vuole combattere
contrapponendosi alla presenza assistenziale e clientelare del regime e per
spazzare via il ciclo tuttora vigente nelle regioni meridionali dal sistema
partitocratico corrotto: emergenza - assistenza - consenso.
C'è tanto da fare, insomma, per opporre una reale politica di presenza, di
informazione e di denuncia che possa limitare in misura apprezzabile lo
squallido "voto di scambio" clientelare, ancora esistente in molte zone del Sud.
C'è tanto da fare anche per il recupero della dignità meridionale (al di là di
qualsiasi piagnisteo dei meridionalisti di mestiere e da salotto e
dall'assistenzialismo fine a se stesso) per riaccendere le speranze spente nella
lunga attesa di rientro dal degrado e dall'emarginazione. Anche sulla scia della
scoperta, la tutela, la valorizzazione e la promozione della identità locale del
Mezzogiorno, affinché sia posto nelle condizioni di poter competere in
moltissimi segmenti significativi con la globalizzazione in atto. Una identità
dalle molte facce, dalle molte potenzialità: dalla cultura alle tradizioni
popolari, ai beni artistici, storici, architettonici ed ambientali, al turismo,
alla pesca, all'agricoltura, all'agrindustria, all'artigianato, al commercio, ai
servizi ed altri settori.
Per la sua posizione strategica, il Sud, anche per il suo rapporto armonico con
il mare, potrebbe avere, se si saprà dotare di dinamismo nelle sue istituzioni
economiche e dirigenziali, la sua grande occasione di rilancio nell'ambito del
Mediterraneo. Le novità introdotte dalle recenti leggi di modifica
costituzionale offrono agli organi di governo delle Regioni una certa autonomia
politica nel campo dei rapporti internazionali e transnazionali, ma tutto ciò
non potrà bastare da solo. Occorrerà realizzare una burocrazia colta ed
efficiente ed una classe politica capace di dotarsi di strumenti di analisi
sofisticate e di competenze diplomatiche qualificate. Ma prima bisogna
realizzare le infrastrutture adatte al processo di ripresa, abbattere la
burocrazia asfissiante, investire in sicurezza e giustizia, incoraggiare
l'impresa ad investire nel Mezzogiorno attraverso incentivo e sgravi fiscali per
chi da lavoro ai disoccupati che sono quattro volte quelli esistenti nel Centro
nord.
Un'intellighenzia autenticamente interessata a sperimentare l'incontro con
realtà diverse e consapevoli nel volere promuovere relazioni privilegiate con i
Paesi in via di sviluppo di tutto il Mediterraneo attraverso l'istituzione di
quel Mercato comune che già abbiamo proposto in diversi convegni e delineato nel
suo progetto complessivo.
La promozione di un'area di libero scambio mediterraneo potrebbe produrre
vantaggi autentici se il Mezzogiorno saprà trasformarsi in uno spazio economico
integrato in tutte le sue funzioni, embrione di una vera e propria comunità
sociale e politica. La soluzione dei problemi, quelli dell'inera Italia e del
suo Sud, tornano nelle mani di chi come noi si predica l'ingresso delle
competenze nelle scelte politiche, anche attraverso la restituzione al Sud di
quanto gli appartiene di diritto in termini di ruolo, di economia, di socialità
e d' identità culturale, di rispetto delle specificità, di solidarismo
comunitario e d'integrazione nazionale (ed europea) che è l'esatto contrario
come dell'attuale sua "subalternità", così come della sua "omologazione".
Questo potrebbe essere uno dei campi nei quali potremmo darci nuove tensioni
ideali, nuove motivazioni di battaglia politica, nuovi grandi e affascinanti
impegni, nuove ragioni e prospettive politiche. A partire proprio dalla qualità
e dall'intensità della nostra presenza nel Mezzogiorno che può rappresentare una
"riserva strategica" di impegno per rinsaldare la nostra area nazionale,
popolare e sociale.