PROVERBI: FRAMMENTI DI SAGGEZZA ANTICA
(di Raffaele Bruno)
"Quei probata verba": così definiva Aristotele i proverbi. Concise espressioni generalmente approvate e ratificate in quanto mosse da secolari constatazioni ed universali esperienze maturate in virtù del costante ripetersi di analoghe situazioni.
Di qui l'istintiva istanza didascalica (forse spontaneamente o addirittura inconsciamente avvertita) di tramandare tali "granelli di sale" - e il sale è appunto sinonimo di sapienza - in forma quanto più concentrata, spesso rimata perché meglio memorizzabile, strutturandoli a mo di massima o di autentica sententia brevis da valere ai fini didattici e di ammaestramento.
Divenuti oggetto di studi socio-antropologici, i proverbi - dalla loro equivalente greca paroimia - hanno dato consistenza ad una specifica e autorevole disciplina, la paremiologia, che ne approfondisce la formazione, la specie e le valenze, e che ha annoverato illustri studiosi quali Tommaseo, il Pitrè, il Lombardi-Satriano, tanti altri oggi vantandone per ciascuna regione italiana.
Ampia e privilegiata l'accoglienza che le fonti letterarie, in disparati ambiti spazio - temporali, hanno riservato ai proverbi: ad essi si intitola uno dei più fruibili libri vetero-testamentari, attribuito al saggio re Salomone, abbondanti gli adagi tra gli antichi Egizi e Cinesi, tutti correlati alla raffinata pazienza di quelle attente popolazioni; sornionamente presenti gli stessi nelle ridanciane commedie di Plauto.
Erasmo da Rotterdam diete vita ad una pregevole Collectanea adagiorum, mentre Shakespeare ne ricavò direttamente i titoli per tre suoi capolavori (Tutto è bene quel che finisce bene, Misura per misura, Molto rumore per nulla); Miguel Cervantes, nel Don Chisciotte, condì con ammiccanti motti sollazzevoli exploit di Sancho Panza.
Per l'area napoletana il periodo più fecondo delle presenze letterarie proverbiali si colloca nel nostro viscerale e barocco Seicento, facendo _ si eco all'arguto immaginario popolare: così ne "Lo Cunto de li cunte" del Basile (1627) - che solo in prosieguo di tempo fu ribattezzato Pentamerone in moraleggiante chiave antiboccaccesca - si possono riscontrare circa trecentocinquanta locuzioni della specie; nelle nove Ecloghe de Le Muse Napoletane dello stesso autore (1635) - in cui è riportata l'aurea massima "Li mutte (i motti) de l'antiche sò digne de memoria" - se ne contano oltre centonovanta; un buon centinaio è disseminato nel curioso e vagamente campanilistico assunto dell'oscuro Partenio Tosco (L'eccellenza della lingua napoletana, 1662), dove si incontra una nutrita serie di cosiddetti proverbi trimembri, cioè articolati in tre addendi tipo e dei quali ebbe ad occuparsi Benedetto Croce in un suo giovanile lavoro.
Ma ancora oggi a Napoli i proverbi rappresentano la saggezza popolare e i più anziani sono i depositari di modi di dire che interpretano l'esperienza di chi ha già vissuto la vita ed ha voce in capitolo e titoli per insegnare ai meno giovani tantissimo, anche ricorrendo ai proverbi che si rimandano da padre a figlio.
Raffaele Bruno
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