mercoledì 6 maggio 2009
PER NON "MORIRE DI CINA" L'INDUSTRIA ITALIANA STA SPARENDO NELLE DELOCALIZZAZIONI
PER NON "MORIRE DI CINA"
L'INDUSTRIA ITALIANA STA SPARENDO NELLE DELOCALIZZAZIONI
di Raffaele Bruno (Vice Segretario Nazionale Vicario del MIS
con Rauti)
Nuovo fenomeno – e anch'esso di segno negativo – per
la struttura industriale di molti settori dell'azienda –
Italia; per non "morire di Cina" per non essere
spiazzati dai sottocosti cinesi sta aumentando il numero
delle aziende italiane che si delocalizzano per risparmiare
sui costi. E vanno in Romania, in Moldavia o in altre
località dell'Europa che si sta allargando. Vanno dove
si può produrre ancora a prezzi competitivi con i prodotti
cinesi. Ma intanto il risultato negativo per il lavoro
italiano, non cambia: il lavoro si riduce; tende a diventare
"sommerso" (sempre per inseguire la riduzione dei costi)
oppure "transitorio", legato a picchi straordinari di
richiesta. Si lavora a pieno ritmo e senza badare agli orari
per due - tre mesi e poi si torna alla disoccupazione.
Recentemente un intera pagina di "Libero" era dedicata a
questo fenomenoche da allora è andato confermandosi ed
anzi crescendo – ma non risulta che esso sia seguito in
modo adeguato né che si avanzino proposte per
fronteggiarlo né da parte governativa né da parte
sindacale (vedi Sinistra in genere). Perché evidentemente
la legge del "libero mercato" è l'unica ad essere
riconosciuta da tutti.
In quella pagina si elencavano situazioni precise ed esempi
concreti, sottolineando anche la gravità di un altro
"fatto" che è sotto gli occhi di tutti e che noi del
Movimento Idea sociale andiamo denunciando da anni: i
prodotti fabbricati dagli industriali italiani che
delocalizzano, vengono venduti con il prezzo che avrebbero
se fabbricati in Italia:
Facciamo un esempio: una t-shirt interamente Made in Italy
costa 30 euro, mentre quella che viene dalla Cina ne vale 8.
La griffe però offre i prodotti al commerciante allo
stesso prezzo. Ed entrambe le magliette vengono poi vendute
in negozio a oltre 50 euro. Il cliente, a differenza
dell'azienda, non ci guadagna, anche perché non sa se la
t-shirt è fatta in Italia o all' estero.In teoria il capo
Made in China dovrebbe costare 20 euro. E la marca che fa la
differenza….
La delocalizzazione è un bene solo per le società. Ma il
Made in Italy non si difende in questo modo, producendo in
Paesi dove non ci sono regole e dove, a volte, si sfrutta il
lavoro minorile. Lo Stato dovrebbe tagliare i benefici
fiscali a queste imprese. E come fare per tutelare il
cliente? «Per fermare queste pratiche poco chiare? Noi
proponiamo di segnalare, vicino al prezzo finale, anche il
prezzo all' origine.
In provincia di Bari ci sono 350 laboratori tessili
specializzati nella maglieria.
Negli ultimi anni il distretto ha perso il 30% del
personale. Colpa della delocalizzazione, ma anche perché
non si trova più nessuno che voglia venire a fare le
confezioni, soprattutto tra le donne. La delocalizzazione
non è uno svantaggio. Le aziende che sbarcano in Romania
hanno subito pronte a lavorare centinaia di persone
sottopagate. Il Made in ltaly per continuare a vivere è
costretto ad andare all'estero per non morire di Cina. I
prodotti Cinesi costano un terzo rispetto al nostro Paese:
per una felpa si spendono 8 euro, 18 in Italia. Neanche la
Romania riesce a competere: il costo medio per realizzare
una maglia è di 12-13 euro. In negozio però la felpa
costa lo stesso: 50 euro. La merce che viene da Pechino
dovrebbe essere invece venduta a 25 euro. Un ricarico del
50%, che finisce nelle tasche delle aziende che
delocalizzano.
Nell'area del cotone – egualmente minacciata – da
segnalare che 14 aziende si sono consorziate, fra Busto
Arsizio, Gallarate e Varese.«Abbiamo proposto una piccola
carta d'identità sui nostri capi», dice Paolo Borlin,
presidente del Consorzio che ha registrato negli ultimi anni
una perdita di manodopera del 35%. «Con l'etichetta
vogliamo evidenziare che le nostre magliette sono realizzate
interamente in Lombardia, e non contengono sostanze
tossiche".
Un altro settore "investito" è quello delle scarpe,
nel Veronese, che conta 549 aziende 7.000 addetti, coprendo
l'8% dell'export nazionale con 303 miliardi di paia di
scarpe.
Verona è però lontana anni luce dalla produzione cinese:
7 miliardi di paia annui. Ma è lontana anche dai prezzi
cinesi: produrre le scarpe in Estremo Oriente costa 15 euro,
almeno 30 in Italia. In negozio il cliente dovrebbe notare
la differenza di prezzo, ma sui cartellini delle grandi
griffe che delocalizzano il risparmio alla cassa non si
vede.
Abbiamo a disposizione altri dati, che riguardano la zona di
produzione tessile nel Biellese, che è in grave crisi.
E ancora: " C'è il pizzo di Cantù e il pizzo
Cantù.
Un esemplare del primo costa 100 euro. Uno del secondo non
più di tre, quattro euro. Giuseppe Marelli, ultimo erede
di una famiglia canturina che dal 1946 produce gli autentici
merletti d'autore, questa differenza .la conosce bene. «Il
pizzo di Cantù, spiega, lo facciamo cucire noi, e pochi
altri, dalle donne del nostro territorio, che proseguono una
tradizione tutta al femminile inaugurata negli istituti
religiosi del 1300 dalle monache. Il pizzo Cantù è
invece quello che troverete in quasi tutti i negozi di
biancheria brianzoli ed è fabbricato da cinesi o indiani.
Per cogliere la differenza tra l'uno e l'altro occorre un
occhio da intenditore. Quindi la truffa è assicurata».
Cosi un lenzuolo rifinito col vero pizzo può valere 1200
euro contro i 300 di uno made in China. Negli ultimi 10 anni
il fatturato della B&B Emme, l'azienda dei Marelli, è
crollato del 50% e, se prima gravitavano intorno alla ditta
circa 150 donne dall'ago fatato, oggi ce ne sono solo una
sessantina.
Qualche conseguenza di natura finanziaria?
Ecco alcune delle tante cifre dell'autunno industriale
italiano, di cui adesso si conoscono bene i risultati: le
esportazioni diminuite e le importazioni aumentate hanno
fatto sì che il saldo commerciale si è ridotto dai quasi
2,4 miliardi del 2003 ad appena 537 milioni.
Il cedimento del Made in Italy assume i contorni della
disfatta proprio nei settori tradizionali, a cominciare
proprio dal tessile abbigliamento: l export italiano nei
Paesi extra- Ue, è calato del 28,2% e i prodotti
dell'agricoltura e della pesca hanno ceduto del 16,4%.
Raffaele Bruno
L'INDUSTRIA ITALIANA STA SPARENDO NELLE DELOCALIZZAZIONI
di Raffaele Bruno (Vice Segretario Nazionale Vicario del MIS
con Rauti)
Nuovo fenomeno – e anch'esso di segno negativo – per
la struttura industriale di molti settori dell'azienda –
Italia; per non "morire di Cina" per non essere
spiazzati dai sottocosti cinesi sta aumentando il numero
delle aziende italiane che si delocalizzano per risparmiare
sui costi. E vanno in Romania, in Moldavia o in altre
località dell'Europa che si sta allargando. Vanno dove
si può produrre ancora a prezzi competitivi con i prodotti
cinesi. Ma intanto il risultato negativo per il lavoro
italiano, non cambia: il lavoro si riduce; tende a diventare
"sommerso" (sempre per inseguire la riduzione dei costi)
oppure "transitorio", legato a picchi straordinari di
richiesta. Si lavora a pieno ritmo e senza badare agli orari
per due - tre mesi e poi si torna alla disoccupazione.
Recentemente un intera pagina di "Libero" era dedicata a
questo fenomenoche da allora è andato confermandosi ed
anzi crescendo – ma non risulta che esso sia seguito in
modo adeguato né che si avanzino proposte per
fronteggiarlo né da parte governativa né da parte
sindacale (vedi Sinistra in genere). Perché evidentemente
la legge del "libero mercato" è l'unica ad essere
riconosciuta da tutti.
In quella pagina si elencavano situazioni precise ed esempi
concreti, sottolineando anche la gravità di un altro
"fatto" che è sotto gli occhi di tutti e che noi del
Movimento Idea sociale andiamo denunciando da anni: i
prodotti fabbricati dagli industriali italiani che
delocalizzano, vengono venduti con il prezzo che avrebbero
se fabbricati in Italia:
Facciamo un esempio: una t-shirt interamente Made in Italy
costa 30 euro, mentre quella che viene dalla Cina ne vale 8.
La griffe però offre i prodotti al commerciante allo
stesso prezzo. Ed entrambe le magliette vengono poi vendute
in negozio a oltre 50 euro. Il cliente, a differenza
dell'azienda, non ci guadagna, anche perché non sa se la
t-shirt è fatta in Italia o all' estero.In teoria il capo
Made in China dovrebbe costare 20 euro. E la marca che fa la
differenza….
La delocalizzazione è un bene solo per le società. Ma il
Made in Italy non si difende in questo modo, producendo in
Paesi dove non ci sono regole e dove, a volte, si sfrutta il
lavoro minorile. Lo Stato dovrebbe tagliare i benefici
fiscali a queste imprese. E come fare per tutelare il
cliente? «Per fermare queste pratiche poco chiare? Noi
proponiamo di segnalare, vicino al prezzo finale, anche il
prezzo all' origine.
In provincia di Bari ci sono 350 laboratori tessili
specializzati nella maglieria.
Negli ultimi anni il distretto ha perso il 30% del
personale. Colpa della delocalizzazione, ma anche perché
non si trova più nessuno che voglia venire a fare le
confezioni, soprattutto tra le donne. La delocalizzazione
non è uno svantaggio. Le aziende che sbarcano in Romania
hanno subito pronte a lavorare centinaia di persone
sottopagate. Il Made in ltaly per continuare a vivere è
costretto ad andare all'estero per non morire di Cina. I
prodotti Cinesi costano un terzo rispetto al nostro Paese:
per una felpa si spendono 8 euro, 18 in Italia. Neanche la
Romania riesce a competere: il costo medio per realizzare
una maglia è di 12-13 euro. In negozio però la felpa
costa lo stesso: 50 euro. La merce che viene da Pechino
dovrebbe essere invece venduta a 25 euro. Un ricarico del
50%, che finisce nelle tasche delle aziende che
delocalizzano.
Nell'area del cotone – egualmente minacciata – da
segnalare che 14 aziende si sono consorziate, fra Busto
Arsizio, Gallarate e Varese.«Abbiamo proposto una piccola
carta d'identità sui nostri capi», dice Paolo Borlin,
presidente del Consorzio che ha registrato negli ultimi anni
una perdita di manodopera del 35%. «Con l'etichetta
vogliamo evidenziare che le nostre magliette sono realizzate
interamente in Lombardia, e non contengono sostanze
tossiche".
Un altro settore "investito" è quello delle scarpe,
nel Veronese, che conta 549 aziende 7.000 addetti, coprendo
l'8% dell'export nazionale con 303 miliardi di paia di
scarpe.
Verona è però lontana anni luce dalla produzione cinese:
7 miliardi di paia annui. Ma è lontana anche dai prezzi
cinesi: produrre le scarpe in Estremo Oriente costa 15 euro,
almeno 30 in Italia. In negozio il cliente dovrebbe notare
la differenza di prezzo, ma sui cartellini delle grandi
griffe che delocalizzano il risparmio alla cassa non si
vede.
Abbiamo a disposizione altri dati, che riguardano la zona di
produzione tessile nel Biellese, che è in grave crisi.
E ancora: " C'è il pizzo di Cantù e il pizzo
Cantù.
Un esemplare del primo costa 100 euro. Uno del secondo non
più di tre, quattro euro. Giuseppe Marelli, ultimo erede
di una famiglia canturina che dal 1946 produce gli autentici
merletti d'autore, questa differenza .la conosce bene. «Il
pizzo di Cantù, spiega, lo facciamo cucire noi, e pochi
altri, dalle donne del nostro territorio, che proseguono una
tradizione tutta al femminile inaugurata negli istituti
religiosi del 1300 dalle monache. Il pizzo Cantù è
invece quello che troverete in quasi tutti i negozi di
biancheria brianzoli ed è fabbricato da cinesi o indiani.
Per cogliere la differenza tra l'uno e l'altro occorre un
occhio da intenditore. Quindi la truffa è assicurata».
Cosi un lenzuolo rifinito col vero pizzo può valere 1200
euro contro i 300 di uno made in China. Negli ultimi 10 anni
il fatturato della B&B Emme, l'azienda dei Marelli, è
crollato del 50% e, se prima gravitavano intorno alla ditta
circa 150 donne dall'ago fatato, oggi ce ne sono solo una
sessantina.
Qualche conseguenza di natura finanziaria?
Ecco alcune delle tante cifre dell'autunno industriale
italiano, di cui adesso si conoscono bene i risultati: le
esportazioni diminuite e le importazioni aumentate hanno
fatto sì che il saldo commerciale si è ridotto dai quasi
2,4 miliardi del 2003 ad appena 537 milioni.
Il cedimento del Made in Italy assume i contorni della
disfatta proprio nei settori tradizionali, a cominciare
proprio dal tessile abbigliamento: l export italiano nei
Paesi extra- Ue, è calato del 28,2% e i prodotti
dell'agricoltura e della pesca hanno ceduto del 16,4%.
Raffaele Bruno
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento